«I colori del tramonto»

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di Gianni Garamanti

Nel lontano paese di Ndovasaj i tramonti sono così belli che, quando due innamorati ci si mettono sotto, come per magia, nasce un bambino. Noi sappiamo che non è proprio per magia che nascono i bambini, ma a vedere quei tramonti così belli, viene voglia di stare in compagnia di qualcuno… e più siamo, meglio è. Quindi a Ndovasaj ci sono famiglie con dieci o undici figli, che nascono, s’intende, a due o tre gemelli per volta. Ché alla fine ci si può fare una squadra di calcio intera!

A Ndovasaj viveva una famiglia felicissima con undici bellissimi figli: sei femmine e cinque maschi. Erano tutt’e undici belli come il sole al tramonto, neri-neri-neri come la prima striscia della bandiera di Ndovasaj, che è proprio nera. Pensate che i ragazzi mettevano su Instagram le facce sorridenti di quest’incredibile squadra di undici figli, come meme sulla felicità…

Finché un giorno nacque il dodicesimo figlio che, a vederlo così, il babbo disse: «Questo è il più grosso bambino che c’è mai nato…»
Ma la mamma rispose: «Per forza è grosso, marito! L’ho nutrito con il nostro amore quand’era nella mia pancia…»

Allora il babbo: «Ma è anche… il più bianco di tutti i nostri ragazzi!»
E la mamma subito: «Davvero…? Be’, è meno nero degli altri perché, dopo undici figli, la tua stampante deve aver finito l’inchiostro!»
Il grosso bambino bianco fu chiamato Dodicino e crebbe ancora così tanto che non si seppe più cosa dargli da mangiare. Piangeva e strillava ché ogni giorno non gli bastavano dieci piadine di sorgo, un cereale che è senza glutine e che a Ndovasaj prende bene a tutti. Al mercato centrale le sue sorelle rubacchiavano polli, patate e fagioli. I fratelli portavano via dalle mani dei turisti i panini imbottiti e le croste di pizza. Ma non bastava ancora e Dodicino piangeva a dirotto. La mamma, allora, provò a mungere di nascosto le pecore rosse del popolo dei Basai. Ma i Basai, si sa, sono un popolo suscettibile e tengono molto alle loro tradizioni: «Il nostro dio ’Tzofai ha tanti colori quanti sono i suoi umori diversi,» dissero «e quando un giorno gli giravano parecchio i pianeti, creò la pecora rossa solo per noi, non per il giovane Ndovasajano scolorito»
La mamma di Dodicino protestò: «Mio figlio non s’è scolorito! Era già così quando nacque…», sembrava parlasse del bucato in lavatrice e aggiunse la storia della stampante e dell’inchiostro ma, anche allora, nessuno le dette ascolto e la situazione precipitò.
Un giorno, il babbo di Dodicino entrò in un McDonald’s, ordinò alla cassiera di dargli tutte le patatine che aveva nella friggitrice e lo videro andarsene via senza pagare. Quella sera Dodicino si strafogò di fritto, passò la notte seduto sul water con una diarrea da non credere e la mattina seguente suo padre fu arrestato e condannato a fare l’uomo-sandwich di quel fast-food, uno di quelli di fronte ai negozi con i cartelli della pubblicità davanti e di dietro appesi al collo.
Nei Social si sparse la voce che la famiglia numerosa di Dodicino non era più felice: costretti a lavori umilianti, a rapinare gli ortolani del mercato, i turisti e i McDonald’s.
Il problema diventò nazionale e a casa di Dodicino arrivò il Presidente di Ndovasaj. Con lui c’erano dieci guardie del corpo con occhiali da sole d’ordinanza, camicia bianca e cravatta nera. E, naturalmente, c’era anche il Vicepresidente che si mise, come al solito, a tagliarsi le unghie delle mani e dei piedi. Era lui l’uomo più importante di Ndovasaj, più del Presidente. Ai suoi tre assistenti, che sapevano uno parlare, uno scrivere e uno ascoltare, disse: «Tutto questo è molto increscioso»
«Increscevole?» fece l’assistente che sapeva parlare.
«Ha detto increscibiloso» disse l’assistente che sapeva scrivere.
«Increscioso! Vuol dire che non-cresce» disse l’assistente che sapeva ascoltare schivando un’unghia del Vicepresidente che schizzò dritta nell’occhio di un gatto che si aggirava da quelle parti.
I genitori ci rimasero piuttosto male, sia per il gatto, sia perché sembrava evidente che il figlio faceva tutto fuorché non-crescere.
«Dodicino deve sparire!» dichiarò il Vicepresidente ma a Ndovasaj ancora nessuno sapeva come far sparire i bambini grossi e bianchi. Così si fece una ricerca su Wikipedia e alla fine venne fuori uno zio di Dodicino che viveva in Italia e allevava maiali.
Il Vicepresidente, con le forbici ancora in mano, tagliò corto: «Il bambino andrà dallo zio!» mentre i presenti schivavano le schegge delle sue unghie, attenti a non fare la fine del gatto. A Dodicino fu comprato un biglietto di sola andata su un barcone che partiva l’indomani. Lo accompagnarono la mamma con la pecora rossa dei Basai che ormai aveva adottato, il babbo con i cartelli pubblicitari davanti e dietro, e i fratelli e le sorelle che avevano tutti uno strano sorriso disegnato sulla faccia: un misto di speranza e paura per lui, per Dodicino che aveva solo tanta fifa.

Dodicino arrivò in Italia che leggeva bene e parlava con un po’ d’accento di Ndovasaj. Quando parlava in fretta, l’accento gli s’incastrava in mezzo alla gola come un nocciolo di un frutto del suo Paese che gli mancava tanto…
Lo zio stava con i maiali ma era triste. Dodicino gli chiese perché e lo zio gli rispose con una frase che non era sua, ma che gli s’adattava bene: «Sto con i maiali perché i cani ci guardano dal basso e i gatti ci guardano dall’alto… i maiali, invece, ci trattano da loro pari!» Dodicino, non potendo mangiargli i maiali, aveva sempre una gran fame e un giorno prese le sue cose e se ne andò in città a cercare lavoro. Qui gli chiesero una carta d’identità, il visto d’ingresso e un conto in banca. Dodicino non aveva soldi, né documenti. Aveva solo tanta fame e, quando calò la sera, sentì il latrato di un animale venir su dal suo stomaco. Per un pezzo di pane o qualche chicco di sorgo avrebbe dato anche una pecora rossa dei Basai!

La città brulicava di luci e lui sentì ancora il verso straziante che faceva la sua pancia vuota. Allora guardò il sole che calava all’orizzonte e quel tramonto gli sembrò così diverso da quello che faceva nascere i bambini in Ndovasaj: era un tramonto sbiadito come lui! A Dodicino era sempre mancato il colore sulla pelle, ora però iniziava a mancargli anche dentro al cuore.

Quel cielo finì con armare la sua rabbia e in quel momento sentì una voce che gli chiedeva a raffica: «Che fai lì! Di dove sei? Da dove vieni?»
Dodicino strinse i pugni e fece per colpire questo tipo che aveva scritto un po’ dappertutto che era un poliziotto: sul cappello, sulla giacca e sui pantaloni e, a guardarlo bene, sembrava ce l’avesse scritto anche sulla faccia. Teneva gli occhi stretti, aveva le pieghe sulla fronte e buttava la bocca all’infuori, esatto come fa la gente quand’è arrabbiata oppure quando ha paura. Il poliziotto aveva paura!

Allora Dodicino non lo colpì e, col suo solito nocciolo in gola, gli disse: «Io, lavoro…» anche se

Il racconto di Gianni Garamanti, ispirato a “Dodicino”, è contenuto in «Storie crudeli – le novelle toscane, oggi»… scaricalo ora in ebook!